Il 4 Aprile 1860 un gruppo di patrioti mazziniani e liberali, guidati da Francesco Riso,si barricano nel convento della Gancia a Palermo. Questo diede origine al moto che prende il nome dal convento e successivamente alla spedizione dei “Mille”.

stemma dei borboni

I fatti più significativi che accompagnarono nel 1860 la spediazione dei "Mille" e l’annessione della Sicilia all’Italia non furono quelli riguardanti i rapporti intercorsi tra Garibaldi e Cavour, ma piuttosto il ruolo attivo che il popolo siciliano ebbe nel determinare la caduta definitiva del governo borbonico; è perciò, importante ricostruire gli avvenimenti dell’insurrezione siciliana vera e propria, che va dal moto partito dal convento della Gancia a Palermo il 4 aprile 1860 all’entrata dei garibaldini nella capitale siciliana il 27 maggio. Questa insurrezione fu il risultato di un processo storico autonomo, indipendente dai contemporanei fatti del continente, che portò la sicilia a confluire nella storia d’Italia con l’annessione al Piemonte, stentando, però, ad integrarsi nel nuovo stato per ragioni che è assai importante mettere in luce.

Nel maggio del 1859 era morto Ferdinando II e gli era successo il figlio Francesco II, sovrano di mediocri capacità politiche e inadatto a comprendere e valutare quanto stava succedendo nel resto d’Italia. Il governo borbonico probabilmente sottovalutò il clima incandescente presente in Sicilia e, comunque, non prese misure adeguate per fronteggiarlo, sicchè il moto della Gancia scoppiò il 4 aprile sotto la guida dell’artigiano Francesco Riso. Esso ebbe, come tutte le altre rivoluzioni scoppiate in Sicilia, un duplice aspetto: fu, da un lato, l’espressione della insofferenza della classe dirigente nei confronti dell’oppressivo dominio borbonico; fu, dall’altro, l’esasperata manifestazione del disagio sociale popolare, che da sempre covava nell’isola.

Le classi dirigenti manifestarono diffidenza verso la rivoluzione, restie com’erano a ribellarsi prima di avere avuto promesse certe di aiuti esterni, ed inoltre temevano che le rivendicazioni sociali dei rivoluzionari potessero divenire incontrollabili. Il movente politico era, infatti, messo dal popolo in secondo piano rispetto alle richieste di terra, cibo, giustizia sociale.

Scoppiato il moto della Gancia, la sua risonanza in tutta la Sicilia fu enorme, amplificata dalla difficoltàcon cui avvenivano le comunicazioni, che portava ad esagerare le notizie e ad ingrandirle oltremodo. Nella Sicilia occidentale i focolai insurrezionali, suscitati da bande armate di "picciotti", furono assai numerosi, Cefalù, Carini, Mazara, Misilmeri, Villabate, Partinico, Piana e altri comuni, mentre nelle province orientali, dove i presidi militari esercitavano un forte controllo, pur non scoppiando moti rivoluzionari, vi era un notevole fermento, sintomo innegabile di una situazione vicina al punto di rottura: Messina, Catania, Girgenti, Trapani presentarono questo clima incandescente. L’isola visse, comunque, un momento di grande turbamento, mentre i più deboli, tra cui donne e bambini, si rifugiavano sulle montagne e masse di contadini invadevano le città, creando gravi timori nelle autorità.
Nelle città come Messina, Catania e Palermo, che avevano un consistente presidio militare, sorse una sorta di dittatura militare, mentre in altre città, come Girgenti, Trapani e molte altre, i ceti possidenti, spaventati e preoccupati dalla furia popolare, ottennero dal governo l’autorizzazione di costituire una guardia armata per fronteggiare eventuali disordini. La borghesia, pur desiderando la rivoluzione, mirata ad abbattere l’odiato dominio borbonico, che teneva la Sicilia in stato di soggezione, ne temeva gli eventuali risvolti sociali e, perciò, cercava di tenere a bada il popolo. Era ancora la vecchia strategia delle rivoluzioni del ’20 e del ‘48, quando borghesia e nobiltà, le classi detentrici della ricchezza, avevano assunto la guida della rivoluzione per orientarla in modo conforme ai loro interessi. Alla vigilia della rivoluzione del 1860 Rosolino Pilo, fervente mazziniano, manifestava in una lettera al Crispi il timore che fosse la vecchia classe dirigente di idee conservatrici a impadronirsi della direzione della rivoluzione per snaturarla, e, per scongiurare questa eventualità, fece ingresso clandestinamente in Sicilia il 12 aprile insieme a Giovanni Corrao con lo scopo di preparare la venuta di Garibaldi organizzando la resistenza, ma ormai quasi tutte le città, tranne Palermo, Catania e Messina, che avevano consistenti presidi militari, avevano organizzato guardie civiche alle dipendenze della borghesia.
I contatti tra i liberali in esilio e quelli rimasti nell’isola non si erano mai interrotti e il La Farina, che era stato tra i fondatori della "Societa’ Nazionale" forniva i comitati clandestini di stampa propagandistica volta ad incitare all’unificazione dell’Italia sotto lo scettro di Vittorio Emanuele, il quale, temendo che un’iniziativa democratica orientasse i Siciliani verso una soluzione repubblicana, invitò ad un colloquio il barone Vito d’Ondes Reggio, che gli confermò l’intento dell’isola di unirsi al suo regno, purchè alla Sicilia fosse lasciata la massima autonomia ed un parlamento separato, richieste che furono accolte da Vittorio Emanuele, a condizione che i Siciliani agissero da soli senza l’aiuto del Piemonte. A seguito di questo colloquio il re inviò in Sicilia Enrico Bensa, che, attraversoil principe Pignatelli di Monteleone, prese contatto con i maggiori esponenti del liberalismo moderato siciliano, tra cui il barone Riso, il duca di Cesarò, Francesco Brancaccio di Carpino ed il marchesino di Rudinì, ai quali promise l’appoggio del Piemonte dopo l’avvenuta cacciata dei Borboni.

Iniziò da parte dei liberali moderati, che contavano sull’appoggio morale di Torino, il reclutamento di squadre per controllare i movimenti popolari e nel contempo l’opera di incitamento alla rivoluzione rivolta a tutti i ceti. E’, dunque, certo che subito dopo il moto della Gancia e prima dello sbarco dei "Mille" vi era in Sicilia un grosso fermento rivoluzionario, diretto dal cetoliberale borghese, che coinvolgeva tutti i ceti e annoverava nelle sue file non soltanto gente colta, ma anche contadini, malfattori, cammorristi; esso, pur avendo disparità di obiettivi tra le sue componenti, era tenuto insieme dal comune obiettivo di scrollarsi di dosso l’oppressione del dominio borbonico. L’organizzazione delle squadre di rivoltosi si intensificò con l’arrivo di Rosolino Pilo e di Giovanni Vorrao il 10 aprile e la notizia diffusa ad arte dell’imminente arrivo di Garibaldi dette un colpo di frusta alla rivoluzione, mentre anche il ceto borghese intensificava il reclutamento delle squadre temendo contraccolpi di tipo sociale.
Le bande di tipo mafioso, che erano sempre pronte a sfruttare momenti del genere, affiancarono prontamente i rivoluzionari; il Di Miceli e lo Scordato, che, dopo aver appoggiato la rivoluzione del ’48, erano passati nel ’49 dalla parte dei Borboni vittoriosi, si schierarono di nuovo a fianco dei rivoluzionari, per esercitare un controllo sulle forze popolari, sicuri com’erano di poter prosperare nel disordine con la possibilità di farsi pagare per i loro servigi e di fare bottino. Le bande criminali avevano come mira il denaro ed il potere e per loro era indifferente ottenerlo con il crimine o con la rivoluzione politica.

Il governo borbonico, a seguito di questi fatti, perse il controllo dell’isola, dove le leve di comando passarono nelle mani delle squadre borghesi e contadine, mentre a Palermo, Catania, Messina, i presidi militari borbonici, che ne detenevano il controllo, pur manifestando un certo smarrimento, cercavano di mettere in atto un paio d’azione per disperdere le bande operanti all’interno dell’isola. Il clima instaurato in Sicilia dal governo borbonico era quello di stato di assedio con misure di limitazione della libertà di movimento dei cittadini e conseguente ristagno degli affari e del commercio, che fece lievitare enormemente il prezzo dei generi alimentari diventati difficilmente reperibili. Le classi medie, quando si accorsero che il governo borbonico non erano in grado di proteggere le loro proprietà gli tolsero il loro appoggio. La misura più grave presa dal governo fu quella di dare libertà ai soldati borbonici di fare bottino, allo scopo di motivarli maggiormente ad assalire i comuni in rivolta.
Tornata una certa calma, il governo, spinto dall’esigenza di minimizzare di fronte alla diplomazia internazionale la portata dei fatti siciliani, il 3 maggio tolse lo stato d’assedio, ma ripristinò due ordinanze emanate dal principe di Satriano il 6 giugno 1849, che proibivano la detenzione di armi e deferivano ai Consigli di guerra i contravventori. La misura colpì principalmente la borghesia, che si vedeva nell’impossibilità di difendersi nel caso di rivolte sociali, e accelerò l’avvicinamento di repubblicani e separatisti al programma lanciato dalla "Societa’ Nazionale" di unione della Sicilia al regno costituzionale di Vittorio Emanuele, programma a cui avevano aderito anche i mazziniani come La Farina e Cordova, perchè considerato più vicino alle attuali condizioni politico-sociali della Sicilia e nello stesso tempo foriero di un sistema liberale, che avrebbe certamente migliorato le condizioni dell’isola senza introdurre radicali rivolgimenti.

Sollecitati dalla rivoluzione scoppiata in Sicilia, Francesco Crispi, Nino Bixio, Agostino Bertani ed altri patrioti convinsero Garibaldi a guidare una spedizione per la liberazione della Sicilia; essa partì da Quarto, presso Genova, nella notte tra il 5 ed il 6 maggio 1860 ed era composta da quasi 1100 uomini (di cui il nome di "spedizione dei Mille") imbarcati su due piroscafi, il "Piemonte" ed il "Lombardo", sottratti all’armatore Rubattino. Cavour, sostenitore del metodo diplomatico, era contrario all’impresa, che puntava sull’insurrezione ed era organizzata, peraltro, da democratici, ma, poiche’ ad essa era favorevole Vittorio Emanuele, egli non la impedì, tanto piu’ che la parola d’ordine proclamata da Garibaldi alla partenza fu "Italia e Vittorio Emanuele".

Nel clima che si era creato in Sicilia lo sbarco a Marsala di Garibaldi il 10 maggio dette alla rivolta l’energico capo che essa aspettava, infatti il 14 maggio a Salemi egli proclamò la dittatura nel nome di "Italia e Vittorio Emanuele". Garibaldi raccolse insieme le istanze politiche della borghesia e quelle economico-sociali del popolo, che riuscì a rivestire anch’esse di significato politico.Il popolo vedeva in Garibaldi "l’uomo mandato da Dio" a instaurare condizioni di giustizia sociale, secondo la definizione usata da frate Pantaleo nel salutarlo dopo la battaglia di Calatafimi nel duomo di Alcamo; egli fu oggetto di venerazione fanatica da parte del popolo, che accettava acriticamente il programma politico solo perchè in funzione del programma sociale. La borghesia, che avrebbe potuto vedere in Garibaldi l’ombra del repubblicanesimo mazziniano, fu rassicurata dal fatto che il programma garibaldino includeva il nome di Vittorio Emanuele, in nome del quale Garibaldi aveva assunto la dittatura della Sicilia.

Il 15 maggio presso Calatafimi vi fu il primo scontro dei garibaldini con le truppe borboniche, che furono costrette alla ritirata. Questo primo successo fu decisivo per fare dei "Mille" il centro di attrazione di tutte le forze rivoluzionarie dell’isola. Mentre Garibaldi proseguiva la sua marcia verso Palermo, giungeva notizia al Castelcicala, luogotenente generale dell’isola, che le squadre di "picciotti" andavano progressivamente ad ingrossare le file dei garibaldini, infatti le bande venivano arruolate da Garibaldi, che dava loro paga e cibo; il La Masa affermò di avere arruolato oltre 6.000 di questi irregolari. Essi, però, creavano serie difficoltà, perchè mancavano di disciplina ed erano spesso in lotta tra di loro, ma per i garibaldini furono di grande aiuto per la loro perfetta conoscenza del territorio. La tattica di Garibaldi era quella di evitare lo scontro in campo aperto e di preferire la guerriglia ed i combattimenti nelle strade, tattiche da lui apprese durante la sua attività di soldato di ventura in Sud America durata dieci anni.

I garibaldini fecero il loro ingresso a Palermo, dove era concentrato il grosso delle truppe borboniche in Sicilia, il 27 maggio e al loro ingresso i funzionari borbonici abbandonarono i loro uffici, che rimasero chiusi, mentre i detenuti delle prigioni furono liberati dal popolo. Il generale borbonico iniziò il bombardamento della città, interrotto da un ordine di Francesco II, che voleva evitare un massacro e che, comunque, non nutriva speranze di vittoria. Dopo tre giorni di combattimenti, aiutati dalla popolazione i garibaldini costrinsero i borbonici a lasciare la città. Garibaldi costituì, allora, un governo, diretto da Crispi, composto di moderati e democratici, che fu riconosciuto da tutta la Sicilia, tranne che da Messina, dove si concentrarono le risidue forze borboniche.

Garibaldi governò da dittatore della Sicilia per cinque mesi prima di passare lo stretto per tentare l’occupazione di Napoli e iniziò l’opera di riordinamento dell’isola subito dopo l’assunzione della dittatura a Salemi, senza aspettare di liberarla interamente, e le prime misure furono dirette alla riorganizzazione amministrativa ed alla sicurezza pubblica. Il 14 maggio, giorno in cui assunse la dittatura, costituì con decreto una milizia composta da tutti i cittadini in grado di portare le armi, di età compresa tra i 17 ed i 50 anni, divisa in tre categorie: la prima composta di militi dai 17 ai 30 anni, mirata alla formazione dei battaglioni di combattimento; la seconda composta di militi dai 30 ai 40 anni per la difesa e l’ordine pubblico nell’ambito dei singoli distretti; la terza per lo stesso servizio nei comuni.

Garibaldi nominò segretario di stato Francesco Crispi, che fu l’ispiratore della sua politica, e con un decreto emesso ad Alcamo il 17 maggio dispose la nomina di un governatore per ognuno dei 24 distretti della Sicilia con il compito di provvedere al riordino delle amministrazioni comunali, alla nomina degli assessori della sicurezza pubblica (uno per ogni quartiere a Palermo, Messina, Catania), alla nomina di un questore nel capoluogo di ogni distretto e di un delegato per la sicurezza pubblica in ogni comune. Atti pubblici, sentenze e decisioni dovevano intestarsi:"in nome di Vittorio Emanuele, re d’Italia" e piu’ tardi lo stemma sabaudo fu adottato anche per la Sicilia.

Queste misure rassicuravano il ceto borghese e nobiliare, perchè chiaramente mirate a ristabilire l’ordine e ad eliminare le squadre di volontari, che non sempre avevano tenuto un comportamento corretto, sostituendole con il reclutamento militare obbligatorio. Ma quest’ultimo provvedimento ebbe notevoli difficoltà di applicazione, perchè i Siciliani, pur essendo stati pronti ad arruolarsi come volontari, non erano disponibili alla leva obbligatoria soprattutto per ragioni economiche, e cioè per il disagio creato dalla sottrazione di valide braccia di lavoro, infatti per questo e per altri motivi i Borboni si erano sempre astenuti dall’imporre la leva obbligatoria. Inoltre le bande, all’annuncio del provvedimento, minacciarono di scatenare una guerra civile, vedendosi rimpiazzate.

Quando Garibaldi decise di portare la guerra sul continente migliaia di volontari siciliani disertarono, per nulla coinvolti dalla causa dell’unità italiana. Le stesse provvidenze di carattere sociale del dittatore, che prometteva una distribuzione di terre per riparare ai torti delle usurpazioni, furono fonte di disordine e scatenarono una feroce iniziativa popolare, che si manifestò nell’occupazione di terre, mentre i proprietari venivano trucidati. I fatti di Bronte sono un esempio di quest’ondata di violenza e furono severamente puniti, perchè Garibaldi non era un ananrchico, ma voleva sinceramente operare una conciliazione tra le forze popolari ed i possidenti, i quali si resero conto che collaborare con Garibaldi ed il Piemonte poteva essere l’unico modo per restaurare l’
rdine; fu così che molti di essi si associarono alla causa dell’unità d’Italia.

Garibaldi emanò anche altri provvedimenti, mirati ad alleviare il disagio delle classi più povere, quando il 20 giugno costituì a Palermo un governo regolare con 6 dicasteri (Guerra e Marina, Interno e Finanze, Giustizia, Istruzione Pubblica e Culto, Affari Esteri e Commercio, Lavori Pubblici e Finanze): fu abolita la tassa sul macinato e i dazi sui cereali e sui legumi; fu disposto il risarcimento dei danni causati dalle truppe borboniche; fu disposta l’assegnazione di una quota di terra dei demani comunali a chi aveva combattuto per la liberazione della Sicilia o agli eredi in caso di sua morte; fu promessa agli arruolati con la leva obbligatoria la sicura attribuzione di una quota di terreni demaniali in applicazione della legge emanata nel 1849; fu progettata la costruzione di nuovi villaggi, la messa a coltura di terreni abbandonati, il rimboschimento di terreni montagnosi, la bonifica di terreni paludosi, l’incalanamento di fiumi; fu firmato il contratto di costruzione della prima ferrovia siciliana.
Particolare attenzione fu dedicata all’istruzione, infatti fu programmata la costruzione di scuole e di asili, furono create tre nuove scuole tecniche superiori e fu quasi raddoppiato il numero delle cattedre universitarie.

La politica di Garibaldi si attirò la critica di essere troppo radicale e semplicistica, infatti mancava al dittatore, che era fondamentalmente un soldato di mestiere, la necessaria maturità politica per stilare un programma che facesse necessariamente i conti con le inveterate condizioni politico-sociali della Sicilia, una volta plavatasi la ventata rivoluzionaria.

Per rimettere in sesto l’erario statale, allo scopo di sopperire ai bisogni più urgenti del paese, Garibaldi sciolse gli ordini dei Gesuiti e dei Liguorini, devolvendo parte delle loro rendite alla pubblica istruzione, mise un’imposta del 2&37; sugli immobili posseduti da tutti gli ordini religiosi, preparo’ l’emissione di buoni del tesoro per un importo di 400.000 ducati, ma si oppose a renderne obbligatoria la sottoscrizione da parte dei ceti abbienti per non alienarsi l’appoggio di nobilta’ e borghesia. Egli mirava a svolgere un’opera di conciliazione tra tutti i ceti sociali allo scopo di avere il consenso generale, infatti chiamo’ a far parte del primo governo sorto dopo la rivoluzione monarchici, repubblicani, autonomisti senza pregiudiziale alcuna ed egli stesso, pur essendo anticattolico ed anticlericale, il 15 luglio per la festa di Santa Rosalia ricevette a Palermo in cattedrale, come rappresentante del re, l’incenso dall’arcivescovo celebrante, secondo la tradizionale cerimonia della "Cappella reale", che richiamava simbolicamente i poteri della Legatia Apostolica.

Garibaldi, già nei primi cinque mesi della sua dittatura aveva operato la piemontesizzazione della Sicilia introducendovi leggi ed istituzioni del Piemonte e imponendo all’isola con suo decreto il tricolore, la lira, il sistema metrico decimale. Fu introdotto il sistema parlamentare piemontese, invece del tradizionale parlamento siciliano, e si diffuse la sensazione che non ci sarebbe stata l’autonomia promessa da Cavour, ma piuttosto l’annessione al Piemonte. Pur vedendo vanificate le aspirazioni autonomistiche della Sicilia, alcuni possidenti auspicavano una sollecita annessione al Piemonte per porre fine alla dittatura di Garibaldi con le sue riforme agrarie e sociali. Essi, inoltre, non vedevano di buon occhio il progetto del dittatore di liberare l’Italia meridionale, perchè temevano la restaurazione di uno stato delle "Due Sicilie". L’opinione pubblica siciliana si aspettava da Torino una qualche forma di autogoverno, anche se considerava inevitabile l’unione al resto d’Italia, che era vista non come un obiettivo in sè auspicabile, ma come mezzo per esorcizzare i pericoli di una controrivoluzione borbonica o di una riforma radicale.

Alcuni nobili siciliani, fidando nelle promesse di Cavour di lasciare alla Sicilia larga autonomia, si recarono a Torino per sollecitare il suo intervento, ma il ministro, nella nuova posizione di forza maturata dal Piemonte, impose le sue condizioni e disattese le promesse fatte in precedenza. Quando i Siciliani si resero conto che si stava operando una fusione con il Nord, essa era già in atto con l’introduzione del sistema amministrativo e giudiziario, nonche’ di moneta, pesi e misure piemontesi.

Nonostante l’impegno posto da Garibaldi nel riordinare la Sicilia e nello svolgere opera di pacificazione sociale, astenendosi dalle competizioni di parte, non tutte le amministrazioni comunali poterono essere riordinate, nè si potè eseguire il provvedimento della leva obbligatoria, mentre le bande, ufficialmente sciolte, in realtà continuavano a scorazzare nelle campagne. La Sicilia, dunque, continuava ad essere in preda al disordine, come scriveva il La Farina al Cavour, mentre Garibaldi era costretto a dedicare le sue maggiori attenzioni all’immediata costituzione di un esercito di volontari per tentare la conquista di Napoli.

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