Gli operai sottoposti ad un terribile regime di lavoro attendevano con ansia il giorno di riposo, le domeniche e le altre feste, onde poter respirare dalle fatiche durate vari giorni e avere la consolazione di rivedere i propri cari, e specialmente quella gente che, abitando in centri lontani dalla miniera, non faceva ritorno in essi che per le feste

Immagine di fiasche di vino

Fiasche di vino con cui gli zolfatai si ubriacavano nelle osterie nei giorni di festa

Con la “sacchina” a tracolla o mettendo le proprie cose su qualche carro, generalmente uno per ogni gruppo di operai dello stesso paese non troppo numeroso, essi si avviavano verso casa alla spicciolata secondo il termine del turno di lavoro, alcuni partendo anche a notte inoltrata, rischiarandosi la strada con le lucerne e snodandosi in lunghe file in una fiaccolata rada e lunga, perché una sola lucerna bastava per varie persone onde risparmiare combustibile.

In paese la giornata festiva era tra le più movimentate; bisognava con la paga percepita, non sempre bastante, tacitare vari fornitori, minaccianti rappresaglie se non fossero stati pagati, quindi si faceva la “funziunedda”: la moglie o qualche persona di famiglia con una tazza, “lu cicaruni“, sotto lo scialle,”mantellina“, si recava dal macellaio a comprare la carne o più spesso le frattaglie.

Il pranzo aveva luogo dopo che si era tornati dalle sacre funzioni della chiesa, dove però non tutti si recavano, giacchè lo zolfataio, forse perché abbrutito dal suo genere di lavoro, non somigliava al lavoratore dei campi, che stando più a contatto con la natura e seguendo interessatamente i fenomeni atmosferici, aveva in se l’intimo senso della religiosità.

Consumato il pranzo abbondantemente innaffiato con gagliarde bevute di vino rosso o vino bianco, tracannato specialmente in estate da fiaschi di terracotta, che avevano il pregio di mantenerlo fresco, alcuni si mettevano a giocare con gli uomini del vicinato con carte siciliane (napoletane secondo l’autore); i giochi preferiti erano “la scupa“, “la belladonna“, “la briscula” e più spesso la “zighinetta“, gioco d’azzardo in cui si puntavano delle somme anche notevoli con effetti spiacevoli per le modeste condizioni economiche familiari, mentre spesso ne nascevano zuffe violente.

I più piccoli, i “carusi“, preferivano giocare con i soldoni a “la musca“, consistente nel battere a vicenda le monete al muro e cercare di far cadere la propria vicino a quella dell’avversario, comunque pari alla misura, generalmente un pezzetto di legno che prendeva appunto il nome di “musca” e che veniva adoperata per tale scopo; questo gioco prendeva varie denominazioni, a seconda dei luoghi, tra cui quello di “muriddu” a Caltanissetta.

Immagine dell’edificio del dopolavoro delle miniere Di Grottacalda in provincia di Enna

Il dopolavoro della miniera di Grottacalda in provincia di Enna dove gli zolfatai trascorrevano il tempo libero

Altro gioco preferito era “lu martieddu“, consistente nel far cadere ad una certa altezza una pietruzza sulla propria moneta tentando di farla sovrapporre a quella dell’avversario, nel caso si vinceva. Ma nelle prime ore del pomeriggio gli adulti, seguiti spesso dai ragazzi, si recavano all’osteria, la qual cosa rappresentava il rito più suggestivo, addirittura essenziale, di tutta la festa.

L’osteria fino a qualche decennio fa costituiva quasi l’unico centro di riunione, perché questa gente si sentiva pienamente affratellata nel vino, che sollecitava le sue qualità canore, facendo fiorire sulle labbra di tutti una ricca messe di canti ora gioiosi, addirittura scintillanti, ora tristi, malinconici narranti le varie fasi del lavoro o addirittura i diritti della primogenitura, che annoveravano tra i loro fasti l’essere state sempre frequentate da molta gente per il tratto del proprietario nonché per la qualità dei vini che doveva essere ottima.

Si celebravano le doti del vino bianco Moscato, del Marsala e di altri, ma quello di maggior consumo nei centri zolfiferi del centro Sicilia era il vino di Vittoria, in gran parte vino di concia, il quale veniva consumato in misura addirittura enorme, perché costava molto meno degli altri, benché molti affermassero che esso era fatto di ogni cosa meno che di uva, onde spesso i bevitori andavano a bere il cosiddetto vino di casa, cioè quello fatto con le uve dei vigneti circostanti, venduto a prezzi più alti in osteria.

Del resto per istigare la voglia di bere i frequentatori delle osterie chiedevano all’oste delle vivande di poco pregio, quali fave bollite o ceci o luppini, la cui prerogativa era quella di essere abbondantemente pepati. Accadeva talvolta che la “vivuta” fosse stata tanto abbondante che l’operaio non riusciva ad alzarsi l’indomani per andare a lavoro. La percentuale degli alcoolizzati era pertanto notevole.

Immagine degli edifici del dopolavoro delle miniere Grottacalda di Enna

Edifici del dopolavoro della miniera Grottacalda di Enna

La funzione più importante che si svolgeva nelle osterie era “lu tuoccu“, il quale obbediva a regole ben determinate e costituiva una sorgente inesauribile di rancori e di risse spesso con tristi conseguenze. Esso si svolgeva in tale maniera: degli amici o persone conoscenti facevano portare del vino dall’oste, quindi “si spacinu“, che significava trarre la sorte, mettendo innanzi le mani con un numero vario di dita protese simultaneamente al pronunziare l’espressione “oh,zaff”, fatto il novero, la persona che “nesci”, cioè quella su cui cadeva l’ultimo numero, veniva nominato capo, con padronanza assoluta di bere tutto il vino che volesse, finchè egli nominava la “seggia“, costituita dal “patruni”e dal “sutta“.

Il primo beveva se invitato dal “sutta“, il quale in realtà era colui che comandava il gioco, e aveva il diritto di approvare e rigettare le proposte di “lu patruni” e ciò sino a tre volte, giacché ripetendosi l’offerta di bere sempre all’indirizzo della stessa persona, alla quarta volta il “sutta” non poteva rifiutare. Talvolta “patruni” e “sutta“, messisi d’accordo, bevevano tutto il vino, il che secondo le regole del “tuocco” poteva essere fatto, e in tal caso la compagnia rimaneva “a urmu“, titolo che si dava a chi restava a labbra asciutte. Alcune volte chi rimaneva a labbra asciutte non sopportava lo “smaccu” e decideva di fare le sue vendette che talvolta davano luogo a gravi fatti di sangue.

Non tutti trascorrevano la festa in tal guisa; alcuni, i pochi si intende, si iscrivevano alle confraternite religiose e di mutuo soccorso e in esse recitavano le preghiere o si davano ad onesti passatempi, non seguendo il cattivo esempio dei zolfatai più scalmanati.

Molto diffuse nel passato furono le sale da ballo, poi scomparse, per cui non si ballava che in casa di amici in occasione di fidanzamenti, sposalizi o altre feste familiari. Col nome di sala da ballo non bisognava intendere qualche lontanissima somiglianza con quella che essa è attualmente nelle città, ma una cosa alla buona, consistente in una stanza con poco mobilio, mentre l’orchestra era costituita da qualche suonatore, munito di stecche di legno che batteva alla porta accompagnato dal tamburo, o in seguito da suonatori di “ciermulu“, organetto, nonché di strumenti a fiato o a corde.

La passione che la gente aveva per il ballo era grande, specialmente in occasione del Carnevale o di altre feste, durante le quali tutti si riversavano a vedere “l’ucchialuni” e cioè il cosmorama, mentre i giovanotti si affollavano nei camerini di canzonettiste, dove una cantante si esibiva applaudita da tutti.

>Immagine di Nino Martoglio, grande  scrittore siciliano di commedie

Nino Martoglio è stato uno dei più noti poeti e commediografi siciliani

Tutto questo stava a denotare una migliore situazione economica della categoria, attestata anche dal gran consumo di dolci, vini siciliani da dessert e liquori che i vecchi ancora ricordano. Ciò era dovuto alla serenità d’animo che spingeva a dedicarsi a simili divertimenti: era il tempo in cui lo zolfo veniva ben pagato, in un periodo in cui la Sicilia ne deteneva il quasi assoluto monopolio.

In tempi più recenti lo zolfataio si mostrava più evoluto, perché l’analfabetismo era stato in gran parte debellato, mentre l’aver fatto il militare nonché l’evoluzione sociale lo avevano messo a contatto con un tenore di vita più alto; a ciò contribuirono anche le varie istituzioni, quali il dopolavoro e le altre associazioni in genere.

I più giovani frequentavano le associazioni in cui potevano ascoltare la radio, potente mezzo educativo del popolo, e godere dei primi apparecchi televisivi nonché di piccole biblioteche dove avevano la possibilità di accrescere le loro cognizioni e tenersi al corrente degli avvenimenti leggendo i quotidiani; infatti lo zolfataio, in misura maggiore rispetto ai contadini, si occupava intensamente delle questioni sociali, ed essendo un pò più evoluto degli altri lavoratori, era facile che si vedesse prendere la parola nelle pubbliche assemblee per patrocinare gli interessi di categoria, con discorsi che, se potevano suscitare il riso dell’intellettuale per gli spropositi grammaticali, nondimeno facevano presa sulla massa per le idee in essi contenute, riflettenti le aspirazioni generali per un migliore avvenire.

Gli zolfatai e soprattutto i giovani, frequentavano anche il caffè o il cinema ove s’interessavano agli spettacoli di ogni genere, cosicché nelle giornate festive i locali erano letteralmente affollati da operai delle miniere, i quali vi conducevano anche la moglie ed i figli, spettacolo insolito un tempo nei piccoli paesi; ciò accadeva specialmente se nel giorno precedente c’era stata la paga. Spesso i lavoratori costituivano delle compagnie di filodrammatica, che si recavano nei paesi vicini; i soggetti più trattati erano le sacre rappresentazioni, tra cui il “Mortorio” di Filippo Orioles, per cui godeva una certa fama nella zona solfifera nissena il piccolo centro di Delia.

Tra le altre rappresentazioni ricordiamo “L’opra di Santa Margherita“, “Il figliuol prodigo” dei fratelli Raffo e, tra gli altri drammi prediletti, le commedie di Nino Martoglio. Frequenti erano anche le associazioni di giocatori di calcio, di bocce e di tiro alla fune, tutte cose per cui gli zolfatai sentivano una grandissima passione.

Immagine di una cesta piena di luppini

Luppini che gli zolfatai mangiavano nelle osterie durante le bevute di vino