La riforma agraria ha la duplice finalità di redistribuire più equamente la terra migliorandone al tempo stesso la produttività.

raccolta dei campi nell’ ottocento

Le vicende dell’agricoltura siciliana nell’Ottocento sono assai importanti, perchè la struttura economica della Sicilia era prevalentemente agraria. Il fenomeno più rilevante della prima metà dell’Ottocento fu quello della privatizzazione della terra, conseguente all’abolizione della feudalità, e in questo processo la dinamica dei rapporti fra le classi sociali coinvolte (baroni, borghesi, contadini) e lo stato variava a seconda delle situazioni. La borghesia, che aveva il controllo delle amministrazioni locali, talvolta era in conflitto, talvolta era in combutta con i baroni; nei suoi rapporti con i contadini era dalla loro parte quando si trattava di rivendicare le terre spettanti in corrispettivo degli usi civici aboliti, era contro di essi quando perseguiva scopi di appropriazione della terra. In questo gioco di forze eterni perdenti erano i contadini, mentre l’azione dello stato era condizionata dagli interessi congiunti di baroni e borghesia. Il progetto statale della formazione di una piccola proprietà contadina poteva realizzarsi solo se c’era il consenso borghese, che riuscisse a mediare tra baroni e contadini.

Nei comuni siciliani si crearono le condizioni per una lotta di classe conseguente alla privatizzazione delle terre, che espropriava i contadini degli usi civici e li sottoponeva, avendo in mano l’appalto delle gabelle, a pesanti balzelli comunali sui consumi. Abbiamo già visto che la vicenda delle soggiogazioni e dei fedecommessi si concluse a vantaggio delle vecchie classi di proprietari; l’abolizione degli usi promiscui si concluse a tutto vantaggio soprattutto della borghesia rurale. In ogni caso la struttura economica fondamentale siciliana rimase il latifondo a colture estensive, anche se vi furono cambiamenti di proprietari.

La fame di terra da parte dei più poveri era in contrasto con la tendenza ad acquistare sempre più terra dei latifondisti, che si opponevano a qualsiasi suddivisione e praticavano colture estensive, che non richiedevano investimenti. Il governo voleva creare una vasta classe di proprietari per esorcizzare, da un lato, le tensioni sociali e migliorare, la coltivazione della terra, per togliere, dall’altro, potere all’aristocrazia feudale sostenitrice dell’autonomia della Sicilia nei confronti di Napoli.

Nel 1838 il re dette il via alla suddivisione dei fondi ecclesiastici che ricadevano sotto il patronato reale, cioè la maggior parte di essi, e ordinò che fossero restituite alla pubblica fruizione le strade illegalmente privatizzate, le acque e le foreste, mentre si dava nuovo impulso alla commutazione dei diritti promiscui.

Nel 1841 una legge di grande importanza prescrisse che i proprietari in possesso di terre su cui ricadevano diritti promiscui dovevano cederne la quinta parte ai villaggi, perchè le lottizzassero e le assegnassero ai poveri mediante sorteggio, con la clausola che per vent’anni tali lotti fossero al riparo da azioni di rivalsa di eventuali creditori. La sua attuazione pratica fu, pero’, tale da svuotarla della sua importanza, infatti il re, per accattivarsi l’appoggio dei notabili locali, accettò che il possesso della terra fosse ritenuto valido come prova del diritto di proprietà, facendo ricadere sulle popolazioni locali l’impossibile onere di fornire con documenti la prova dell’usurpazione illegale della terra. Questo compromesso era la riprova dell’influsso che i baroni esercitavano sulle oligarchie locali con esse conniventi, e il popolo fu defraudato delle provvidenze a suo favore. In alcuni villaggi i contadini dettero battaglia legale, come a Butera, dove il principe fu citato dinanzi alla corte di Napoli. I comuni, già indebitati, si indebitarono ancora di più per le spese legali sostenute e per il venir meno del gettito delle terre privatizzate dai baroni, e, per incrementare le entrate, imposero dazi alimentari, che andavano anch’essi contro la linea politica adottata dal governo. Al popolo non restava altro modo di resistere che disattendere la legge e continuare ad usufruire abusivamente dei diritti promiscui, con la conseguenza di perpetuare lo stato di arretratezza della coltivazione della terra.

I tentativi del governo di operare una riforma agraria andarono a vuoto non solo per la recisa opposizione dei baroni, ma soprattutto perche’ non era sufficiente distribuire terre ai contadini per trasformarli in piccoli proprietari in grado di provvedere con il reddito del piccolo appezzamento di cui erano assegnatari al sostentamento della famiglia. Molti di essi non possedevano i mezzi necessari per la coltivazione e i prestiti erano erogati a condizioni vessatorie dai "monti frumentari" e dagli istituti di credito, che erano nelle mani dei grandi proprietari terrieri. A ciò si aggiunga che i lotti erano spesso lontani dall’abitato e la terra era di mediocre qualità. Queste obiettive difficoltà di conduzione determinavano, dopo qualche anno, la vendita dei lotti, che venivano acquistati dai latifondisti, con il risultato di perpetuare il loro monopolio della terra. Essi riuscivano persino a convincere i contadini, puntando sulla loro xenofobia, che era la presenza del governo borbonico a impedire qualsiasi forma di progresso in Sicilia. Si perpetuò, così, la situazione di disagio dei contadini, che, tra l’altro, con l’abolizione della feudalità, e quindi dei diritti promiscui, avevano visto peggiorare le loro condizioni di vita e, di conseguenza, aumentarono le tensioni sociali, fino a costituire una forte carica rivoluzionaria pronta ad esplodere.