Gli anni che seguirono la rivolta di Palermo furono contrassegnati dal problema del rifornimento alimentare e dalla necessità di reperire risorse attraverso il fisco in un paese la cui capacità contributiva era ridotta di parecchio.

La carenza di pane giunse al punto che i cittadini di Palermo, che facevano la fila davanti ai forni per la distribuzione razionata del pane, dovevano esibire la carta d’identità, essendo i forestieri esclusi dalla distribuzione.

Il 1669 vide, inoltre, una tremenda eruzione dell‘Etna: una lingua di lava larga 2 chilometri si riversò per oltre 25 chilometri, devastando le campagne, fino a demolire le mura di Catania e ad ostruire parzialmente il porto. Gli aiuti mandati dal vicerè furono visti con sospetto dai catanesi, che temevano che sotto le offerte di aiuto si nascondesse il tentativo di Palermo di rubare il sacro velo di sant’Agata, preziosa difesa contro contro la forza distruttrice della natura.

Problemi di carestia aveva anche Messina, dove il popolo soffriva la fame. La città, che aveva aiutato gli Spagnoli a reprimere la rivolta di Palermo, pretendeva in cambio di essere trattata come uno stato indipendente, dove chi amministrava la città erano i senatori, eletti da una ristretta oligarchia con diritto di voto. Il gruppo dirigente messinese, che esprimeva una elevata capacità di dare coerenza e prestigio alle istituzioni cittadine, si presentava saldo ed omogeneo in un periodo in cui la Sicilia manifestava l’inefficienza e la disgregazione del suo apparato pubblico, civile e militare, con una politica oscillante tra demagogia e repressione e caratterizzata da una faziosità priva di obiettivi.

Al contrario del resto della Sicilia la classe nobiliare dirigente messinese era riuscita a costituire un apparato di potere bene organizzato, che in taluni periodi allargava la sua capacità di aggregazione anche a città come Siracusa, Augusta, Noto e Palermo, la nemica di sempre. Al vertice dell’apparato era un gruppo di nobili, borghesi, intellettuali; facevano da collegamento organizzativo con il popolo della città i "capicento", che rappresentavano il vertice della polizia annonaria e sanitaria dei quartieri cittadini; svolgevano funzioni di propaganda pervasiva frati e preti particolarmente abili nell’eloquenza. Esisteva un assiduo collegamento con le terre del distretto, i municipi, i loro gruppi dirigenti, il loro popolo.

La componente religiosa, indirizzata all’esercizio dell’egemonia messinese nell’isola, si esprimeva nella devozione alla Madonna della Lettera, che aveva un preciso significato di identità civile e politica, simile a quello che il culto di Santa Rosalia esprimeva in grado più elevato per la città di Palermo.

Un apparato siffatto aveva prodigiose capacità di mobilitazione a sostegno di obiettivi politici e la mediocrità della politica spagnola era assolutamente inadeguata a fronteggiarlo. Il malessere economico di Messina era dovuto principalmente alla concorrenza dell’industria della seta sorta in Francia con l’appoggio del governo, che le aveva tolto il monopolio, mentre l’oligarchia senatoria, pur di mantenere intatto il suo prestigio e la sua supremazia, non esitava ad usare a tal fine le finanze dello stato alimentando il malcontento e le proteste della popolazione, che soffriva la fame ed era sottoposta ad un rigoroso razionamento del cibo.

Lo strategoto Luis del Hojo, rappresentante del re, essendosi il popolo sollevato contro i senatori e la nobiltà, per riportare la pace sociale aumentò il numero degli aventi diritto al voto per l’elezione dei senatori e riservò alla nobiltà solo la metà dei seggi del consiglio municipale. Le proteste degli aristocratici costrinsero il vicerè, principe di Ligne, che si era recato a Messina, a sospendere lo strategoto per riportare la calma in città. I contrasti tra gli aristocratici e la fazione popolare, appoggiata dallo strategoto, ripresero a Messina il 2 giugno 1674 in occasione della festa della Madonna della Lettera ed il partito aristocratico pose l’assedio al palazzo dello strategoto e respinse l’ultimatum del vicerè, marchese di Bajona, che avrebbe voluto riconciliare le fazioni rivali.

La rivolta di Messina non fu, come quella di Palermo, la protesta di un popolo affamato, ma la ribellione dell’aristocrazia mercantile, che non intendeva minimamente rinunciare ai suoi privilegi e che si vedeva minacciata dall’atteggiamento della Spagna, che aveva accettato le riforme democratiche e che aveva dato maggiori poteri allo strategoto per tenere a bada gli aristocratici.

L’oligarchia al potere chiese aiuto alla Francia, che in quel periodo era in guerra con la Spagna, che faceva parte della coalizione sorta per aiutare l’Olanda a respingere l’invasione francese; la Francia inviò prontamente 6 vascelli nel porto di Messina assediata dalle truppe del vicerè, mentre i senatori giurarono fedeltà a Luigi XIV, riconoscendo come nuovo vicerè il francese duca di Vivonne. Lo scontro tra Spagnoli e Francesi avvenne nel gennaio del 1676 presse l’isola di Stromboli, ma la battaglia non registrò nè vincitori, nè vinti.

I Francesi inflissero una dura sconfitta alla flotta ispano-olandese il 2 giugno 1676 nelle acque di Palermo e poco mancò che essi non conquistassero la capitale dell’isola. Due anni più tardi i Francesi, visti inutili i tentativi di ampliare le loro conquiste in Sicilia, abbandonarono Messina al suo destino e si ritirarono seguiti da alcuni capi della rivolta e da qualche migliaio di esuli, timorosi della vendetta della Spagna. Nella città ormai piegata entrò il vicerè spagnolo Vincenzo Gonzaga, bene accolto dai messinesi, che desideravano il ritorno dell’ordine e vivevano nel timore di saccheggi da parte della popolazione per vendicarsi della situazione rovinosa a cui l’aveva portata l’aristocrazia.