Nell’aprile del 1577 il duca di Terranova fu sostituito nella carica di vincerè da Marcantonio Colonna, principe di Stigliano, che capovolse la linea politica precedente e oppose ai baroni l’alto clero e i detentori di pubblici uffici.Ma la corte spagnola non condivise questa linea politica e nel marzo del 1584 il Colonna fu richiamato in Spagna, dove morì qualche mese dopo.

Diego Enriquez y Guzman,

Il suo successore, Diego Enriquez y Guzman, conte di Alvadeliste, riprese, da un lato, la politica antibaronale del Colonna, dall’altro si fece promotore di iniziative assistenziali (ospedali, monti di pietà, ricoveri per i poveri).

La fronda baronale imperversava soprattutto nelle campagne, dove sosteneva il banditismo.

Era il periodo in cui l’Invincibile Armata spagnola, comandata dal duca di Medina Sidonia e approvvigionata a cura del vicerè di Sicilia, il 21 luglio 1588 era battuta dalla flotta inglese guidata da sir Francis Drake e sulla via del ritorno era quasi completamente distrutta da un uragano.

L’Alvadeliste, di fronte all’irriducibilità dei baroni, appoggiati, peraltro, dagli inquisitori, nel 1581 chiese di essere richiamato in Spagna e fu nominato vicerè Enrico Guzman, conte di Olivares (1581-1595), già ambasciatore spagnolo a Roma.

La sua linea politica fu caratterizzata dalla conflittualità con il ceto nobiliare, di cui deplorava l’indolenza, l’eccessiva prodigalità e la mancanza di senso civico.

Ai vecchi baroni si affiancava la "nuova" nobiltà del commercio e degli uffici pubblici, verso cui Olivares fu prodigo di titoli nobiliari, lautamente pagati.

Egli intendeva operare una "restaurazione morale", ponendo fine al fiscalismo eccessivo che gravava sul popolo e che era disinvoltamente votato dai baroni nei parlamenti.

Perseguì, inoltre, con estrema durezza il brigantaggio, e, quando riuscì a sconfiggere la banda di Lancia, che contava circa 200 uomini e aveva seminato il terrore a Messina e dintorni, per dare un esempio che servisse da deterrente fece attaccare il Lancia per i quattro arti a quattro galee e lo fece squartare.

L’ultimo trentennio del ‘500, quando era già in atto la decadenza della Spagna, fu caratterizzato da una chiara avversione alla monarchia spagnola dei regni mediterranei, che avvertivano di non far più parte di un regno protagonista della grande storia e manifestavano questa consapevolezza con la richiesta di un diverso assetto costituzionale dei domini di Filippo II.

Era in questo clima che maturavano le richieste di autonomia e le battaglie "nazionali", che, però, non nascevano dalla coscienza di essere in grado di costituire un’egemonia alternativa, ma rivendicavano antichi privilegi per esprimere il malcontento derivante dall’azione antibaronale dei vicerè, che aveva provocato una frattura tra pubblico e privato.

Questa chiave di lettura è valida anche per la Sicilia, dove i baroni, che pure in passato avevano manifestato adesione all’egemonia spagnola, cominciavano a rivendicare privilegi ed immunità.

Questo clima di avversione alla Spagna, conseguente alla perdita dell’orgoglio di far parte dei suoi domini, si manifestò in Sicilia anche con l’avversione alla spagnolizzazione della lingua e dei costumi dell’isola. I vicerè, da parte loro, si irrigidirono nella loro opposizione alle richieste dei baroni nel tentativo di salvare a tutti i costi l’egemonia castigliana.

Il ritardo politico e culturale, che aveva cristallizzato i confini dei ceti sociali ed aveva scavato solchi assai profondi tra di essi, impediva un’azione di coesione "nazionale": i baroni, che si sentivano minacciati dalla nuova nobiltà, cercavano un’intesa con la monarchia, invece di cercare un’alleanza allargata ad altri ceti sociali, al fine di costituire un gruppo di potere "nazionale" in grado di imporre alla monarchia aggiustamenti o radicali modifiche della linea politica.

Netta era la frattura tra nobili e mercanti, e così pure accese erano le rivalità municipali tra le città più importanti: la rivalità tra Palermo e Messina, ad esempio, costituiva per la Sicilia un elemento di grande debolezza. La fine del ‘500 e l’inizio del ‘600 furono caratterizzati da un’intensa attività edilizia nelle grandi città, che determinò la presenza in Sicilia di modelli culturali di alto livello europeo. Dalla campagna confluì nelle città molta forza-lavoro, fenomeno che, in un periodo di arresto demografico, si rivelò dannoso per l’agricoltura, soprattutto per la produzione granaria.

Lo sviluppo edilizio spingeva la popolazione verso le città costiere, dove trovava lavoro, ma dove si trasferiva anche il banditismo, che il governo centrale non riusciva a controllare, anche perchè erano fieramente avversi alla milizia spagnola, che aveva il compito del controllo del territorio, erano i baroni, chiusi nella loro ristretta ideologia "nazionale", che, però, non riusciva ad andare oltre i limiti della loro casta. La guerra corsara, se da un lato faceva affluire ricchezze, dall’altro ostacolava la ripresa dell’economia siciliana. Dopo Lepanto non si fecero più crociate contro i Turchi, ma rimase endemico uno stato di belligeranza contro di essi, che portava le navi degli stati cattolici ad effettuare incursioni corsare, mirate non alla conquista, ma all’espoliazione ed al saccheggio.

La Santa Sede, da parte sua, continuava a concedere indulgenze e privilegi agli stati che versavano il contributo per la crociata. I vicerè di Napoli, Sicilia e Malta armavano navi corsare specializzate nell’arte della preda e così pure finanziavano imprese di tal genere nobili e mercanti. La guerra corsara, però, non aveva di mira soltanto le navi turche, ma anche quelle inglesi, olandesi e persino veneziane. Essa aveva fatto affluire sulle coste dell’isola un vasto campionario di uomini di varie religioni; alcuni di essi, i cosiddetti "rinnegati", convertiti all’islamismo senza alcuna costrizione, seminavano in Sicilia il dubbio sulla superiorità della religione cattolica e criticavano le prescrizioni della Controriforma.