La monarchia borbonica operò in Sicilia con molta prudenza, infatti durante il viceregno del Montemar (1734-1737) non furono varati provvedimenti significativi finalizzati al consolidamento della monarchia. Nel 1737 il Montemar fu sostituito dal principe Bartolomeo Corsini (1737-1747) e, dopo che nel 1738 il papa concesse a Carlo III l’investitura papale, cominciò a prendere corpo un piano di riforme, messo a punto da eminenti giuristi napoletani (Francesco Ventura, Matteo Ferrante, Carlo Danza, Troiano De Filippis, Francesco Perelli). In esso era prevista la concessione di privilegi ai commercianti, la proibizione per gli ecclesiastici di acquisire nuovi beni immobili, la ripartizione più equa del peso fiscale tra i sudditi. Ma il provvedimento più importante, ma anche il più difficile da attuare, era quello di togliere ai baroni i loro poteri giurisdizionali, che limitavano fortemente i poteri del re.

Il piano di riforme fu presentato a Napoli alla Camera di S. Chiara, che su quest’ultimo punto espresse delle riserve, temendo che la sua applicazione avrebbe generato soltanto malcontento e confusione. Gli aspetti giuridici della questione erano, infatti, intricati; dal momento che la giurisdizione era una prerogativa che il feudatario aveva comprato dall’erario, pagando un certo prezzo, e che per lui costituiva fonte di ricchezza, faceva ormai parte del suo patrimonio e non era semplice prevedere il modo di ricomprarla da parte del sovrano.

Nonostante ciò, il governo borbonico di Carlo III, per incitamento del re di Spagna Filippo V, pose tra gli obiettivi principali del suo piano di riforme il recupero all’autorità regia della giurisdizione esercitata dai feudatari del regno e fu il primo ministro Montealegre, a livello del potere centrale, a perseguire questo indirizzo politico.

In Sicilia il vicerè Corsini, nipote del papa, si presentò assai rispettoso delle prerogative del regno dell’isola e non prese mai decisioni importanti senza consultare gli organi di governo locali. Questo atteggiamento lo rese molto ben visto agli occhi dei Siciliani e lo rese adatto ad operare una politica di mediazione tra le tendenze autonomistiche dell’isola e le direttive assolutistiche che giungevano da Napoli.

L’attuazione di un organico piano di riforme, diretto ad instaurare l’assolutismo monarchico, ebbe inizio nel 1738 ed uno dei primissimi atti del Montealegre fu la costituzione di reggimenti siciliani e napoletani dipendenti dal re.

In Sicilia furono arruolati due reggimenti: uno al comando di Gaetano Garofalo di Rebuttone; l’altro, chiamato “Real Palermo“, al comando di Domenico Alliata, principe di Villafranca. La partecipazione alla vita militare dei ceti dirigenti era un elemento di grande novità, infatti ad esse in passato era mancata la possibilità di costituire una tradizione in tal senso. Questo provvedimento fu accolto con favore dai Siciliani e contribuì non poco a riformare lo spirito pubblico isolano, anche se accanto ai reggimenti siciliani rimasero quelli svizzeri, perchè il re non voleva essere alla mercè dei baroni siciliani.

Un altro provvedimento significativo per il rafforzamento del carattere “nazionale” della monarchia borbonica della Sicilia fu l’introduzione della lingua italiana, al posto del latino, nella trattazione degli affari presso la Suprema Magistratura di Commercio, e al posto dello spagnolo nel carteggio fra le segreterie di stato e gli uffici della pubblica amministrazione. La riforma fu accolta favorevolmente e l’abbandono del latino tolse ai Gesuiti il monopolio che essi avevano in campo pedagogico.

In vista di un rilancio economico dell’isola furono varati due provvedimenti, applicati sia in Sicilia che a Napoli: il richiamo degli Ebrei, notoriamente esperti di attività commerciali e finanziarie, e l’istituzione della Suprema Magistratura di Commercio con giurisdizione piena in tutte le controversie commerciali.

Il primo provvedimento non ebbe efficacia pratica per la resistenza opposta dagli ambienti ecclesiastici, che fomentarono l’opposizione della popolazione, tanto che il provvedimento fu revocato nel 1747; il secondo fu una misura realmente innovativa, ma che suscitò un mare di contestazioni. Esso rientrava nella riforma giurisdizionale legata all’instaurazione dell’assolutismo e si limitava, per il momento, ad affrontare il problema del funzionamento dell’ordine giudiziario nel settore economico, a cui si voleva dare un consistente impulso. Il nuovo istituto controllava la riscossione delle imposte doganali, la realizzazione e manutenzione di opere pubbliche, le miniere, l’industria del sale, la pesca; soprintendeva alla marina mercantile ed alla costruzione delle navi. Rientrava nei suoi compiti raccogliere dati statistici finalizzati alla formulazione di un’efficace politica economica; adottare provvedimenti nei confronti dei debitori insolventi, per evitare conseguenze perniciose sulla fornitura di crediti; soprintendere ai rifornimenti alimentari ed alle corporazioni cittadine; fissare i prezzi.

Il suo organico di giudici e personale ausiliario era stipendiato dal re, che provvedeva anche alla sua nomina, sicchè il nuovo organo si presentava come chiaro strumento di politica assolutistica. Inoltre le cause più importanti e le decisioni di appello erano trattate nelle sedi centrali dei due tribunali di Napoli e di Palermo, mentre per le controversie minori era prevista l’istituzione di consolati di terra e di mare da istituire nei principali centri commerciali ed agricoli; in Sicilia ne furono istituiti 15.

Al vertice della Suprema Magistratura erano il gran prefetto, il presidente e tre ministri togati, affiancati da tre ministri nobili e da due ministri commercianti. La composizione di questo comitato direttivo era tale, che i nobili potevano essere messi in minoranza dai commercianti e dai funzionari. Il primo gran prefetto di Palermo fu Antonio Ventimiglia, conte di Prades, vicino al partito ministeriale del Montealegre, il presidente fu De Spuches.

Nonostante la Suprema Magistratura fosse un foro speciale, riservato alle operazioni mercantili, che si affiancava ai tanti altri esistenti in Sicilia, l’istituzione di quest’organo ebbe un effetto rivoluzionario, perchè visto come strumento proprio di un regime assolutistico. In Sicilia, non meno che a Napoli, vi fu una generale protesta, e, dopo l’iniziale richiesta di soppressione dell’istituto da parte del parlamento, si ripiegò dopo sette anni, con la mediazione del vicerè Corsini, sulla sua riforma, che toglieva all’istituto gran parte della sua autorità.

Il Montealegre, dinanzi al fronte congiunto di Siciliani e Napoletani, si guardò bene per il futuro dall’operare riforme che suscitassero le proteste congiunte dei due regni, infatti quando nel 1738 a Napoli fu tolta ai baroni ed attribuita al re la potestà di giudizio per i reati più gravi, il provvedimento non fu esteso ai baroni siciliani, per evitare, appunto, il formarsi di un fronte unico di protesta.

In Sicilia nel 1738, invece della giurisdizione baronale, fu riformata quella ecclesiastica, ed il parlamento autorizzò la monarchia borbonica ad effettuare un piano legislativo che mettesse riparo al disordine conseguente al grande numero degli ecclesiastici, i cui beni erano oggetto di privilegi. Fu stabilito che per l’avvenire la fondazione o il rifacimento di nuovi conventi non potesse effettuarsi senza il permesso del re.

I provvedimenti nei confronti degli ecclesiastici, oltre ad avere in parlamento l’approvazione del braccio demaniale e di quello nobiliare, ebbero anche l’approvazione del braccio ecclesiastico, grazie ad un’abile manovra del vicerè Corsini. Mentre il parlamento esaminava le proposte di riforma, giunse un dispaccio del re, in cui si comunicava che da allora in poi i benefici ecclesiastici di regio patronato sarebbero stati concessi dal re solo a religiosi siciliani, nati in Sicilia, fatta eccezione per gli arcivescovati di Palermo e Monreale, che il re avrebbe assegnato a suo piacimento. Il re si ingraziava i Siciliani e nel contempo colpiva i prelati della Curia romana. Grande fu il giubilo degli ecclesiastici siciliani ed anche dei baroni, che vedevano assicurato l’avvenire dei loro figli cadetti, che spesso vestivano l’abito talare.

Il parlamento del 1738 autorizzò anche un censimento della popolazione, che preludeva ad una riforma fiscale.

Nel 1741 vi fu il concordato tra il re e la Santa Sede, che stabiliva una attenuazione delle immunità ecclesiastiche, dal momento che i beni della Chiesa avrebbero pagato il 50% delle imposte dovute e i nuovi acquisti il 100%. Una disposizione che la Chiesa aveva dovuto accettare era la limitazione dei poteri del Foro del S. Ufficio ed il divieto di scomunica da parte dei vescovi senza il preventivo consenso del governo. Il concordato vide differenziate le posizioni del regno di Napoli e di quello di Sicilia, infatti quest’ultimo fu riconosciuto non soggetto al vassallaggio pontificio. Il re delle Sicilie era, quindi, sovrano tributario di Roma come re di Napoli, sovrano indipendente come re di Sicilia. Ma se questo riconoscimento era, per un verso, un successo, per un altro verso ribadiva il carattere dualistico della monarchia meridionale ed ostacolava il formarsi di un regno unitario.

La giurisdizione baronale siciliana cominciò ad essere messa in discussione nel 1740, quando il comune di Sortino chiese di passare dal dominio baronale a quello regio, pagando il relativo riscatto. Era l’ipotesi ventilata nel ’36 e per prudenza accantonata. In appoggio alla sua richiesta Sortino si offerse di pagare annualmente al fisco, oltre ai donativi consueti, la somma di 1.000 onze, d’altre parte la città, elevata al rango di città demaniale, si sarebbe riappropriata dei feudi ricadenti nel suo territorio, in atto goduti dal principe di Cassaro, che avrebbe perso sia le rendite patrimoniali di tali feudi, sia la giurisdizione su di essi.

La richiesta di Sortino era un caso isolato, ma esplose come una bomba, perchè poteva creare un precedente di grande peso. Le parti interessate erano il proponente, Mario Cilona, ed il feudatario principe di Cassaro, marchese di Sortino, ma i baroni allarmati si sentirono tutti parte in causa. La controversia patrimoniale assunse un chiaro significato politico e l’episodio è emblematico per comprendere le ragioni dello scontro baronaggio-assolutismo borbonico.

La difesa della parte baronale fu assunta da uno dei maggiori avvocati del regno, Carlo Di Napoli, che compose una allegazione (requisitoria), che divenne successivamente punto di riferimento obbligato della giurisprudenza sicilianista e del pensiero politico dell’aristocrazia siciliana. Egli, ripercorrendo le tappe della storia della Sicilia dalla conquista normanna in poi, ricostruì le tappe della legislazione feudale siciliana per giungere alla conclusione che il regno di Sicilia era istituzionalmente fondato non sul potere del monarca, ma sulla confederazione di poteri tra monarchia e baronaggio, perchè il normanno conte Ruggero, non avendo nè i mezzi finanziari, nè le forze per conquistare la Sicilia, chiese l’aiuto dei suoi compagni d’arme, che gli delegarono la sovranità, ma parteciparono alla spartizione delle terre conquistate. I feudi siciliani, quindi, non provenivano dal demanio del principe, ma dalla concorde spartizione dell’isola; il re, di conseguenza, non poteva rivendicare il diritto di devoluzione, che non era mai stato suo.

Il re Federico di Svevia aveva, a sua volta, sancito che, in caso di morte senza eredi di un barone, il feudo non sarebbe andato al demanio, ma sarebbe stato liberamente alienato a condizione che rimanesse nel corpo della proprietà baronale.
Infine l’aragonese re Martino, con il consenso del parlamento di Siracusa, aveva fissato i limiti rispettivamente del patrimonio demaniale, del patrimonio ecclesiastico e del patrimonio baronale. Conseguentemente nessun feudo poteva cambiare fisionomia giuridica senza alterare la costituzione fondamentale del regno e il re non poteva mettere mano sui feudi senza violare le leggi del regno.

La controversia aveva, intanto, suscitato l’aperto dissenso dei baroni in tutto il regno e il Tribunale del Real Patrimonio si affrettò a chiudere la questione dichiarando manifestamente infondata la richiesta di Sortino, decisione che fu un passo indietro nella costruzione dell’assolutismo monarchico ed una clamorosa vittoria per il baronaggio.

La questione dei diritti del sovrano sulla giurisdizione baronale fu riproposta mezzo secolo dopo sempre riguardo al diritto di devoluzione, ma anche allora senza successo.