Dal punto di vista sociale le grandi famiglie, che un tempo detenevano il monopolio della proprietà terriera, videro progressivamente diminuire il loro prestigio ed il loro ruolo egemonico in seguito al passaggio di parte dei loro feudi in altre mani, mentre complessivamente salda rimase la posizione della Chiesa, che raccolse parte di quei feudi. Emergeva un ceto di borghesi che si accaparravano il controllo politico delle amministrazioni comunali, oltre a notevoli estensioni di terra, e che tendevano a sostituirsi alla nobiltà, esercitando analoga funzione economica. Accanto ad essi c’era la categoria dei piccoli proprietari e gabelloti, dei commercianti di grano, dei mediatori agricoli, degli usurai e varie figure legate all’intermediazione parassitaria.

La rivoluzione, però, maturò soltanto quando, attorno all’elemento catalizzatore dell’opposizione a Napoli e del desiderio di indipendenza della Sicilia, si raccolsero, oltre che le tensioni sociali popolari, le spinte ideologiche di elementi colti, che all’estero avevano avuto contatti con le ideologie rivoluzionarie. In Sicilia esisteva una piccola classe di intellettuali, che avevano, però, contatti di carattere internazionale, perchè si erano formati all’estero, mentre i contatti con l’Italia settentrionale non erano significativi. Furono questi elementi che diffusero in Sicilia l’idea della unificazione italiana, che nell’isola veniva vista come un modo per staccarsi da Napoli e recuperare una maggiore autonomia in seno ad una federazione di stati italiani.

Uno di questi intellettuali era lo storico Michele Amari, che, con la pubblicazione nel 1842 della “Storia dei Vespri Siciliani”, propose ai Siciliani un’interpretazione in chiave revisionistica di un periodo rivoluzionario della storia di Sicilia, da lui visto come opposizione a qualsiasi forma di dominazione straniera. L’Amari fu costretto a fuggire in esilio a Parigi, dove entrò in contatto con l’élite culturale d’Europa, e con lui altri intellettuali siciliani maturarono all’estero la loro funzione di guide politiche della Sicilia, come Francesco Crispi e Giuseppe La Farina. Industriali come Luigi Orlando ed economisti come Busacca e Ferrara compresero l’importanza di inserire la Sicilia nel più vasto mercato italiano.

La linea politica del centralismo amministrativo voluta da Napoli doveva fare i conti con questa realtà così intricata, oltre che con le tendenze autonomistiche della Sicilia. Gli interventi ci furono , ma deboli ed in ogni caso inadeguati ad una società che chiedeva al sistema di governo capacità di adattamento alle mutazioni in corso e di risposta ai nuovi bisogni emergenti. In Sicilia si era ampliato il retroterra culturale e la domanda di mutamento veniva anche da quei ceti che all’inizio dell’Ottocento avevano sostenuto la linea del governo. Il fenomeno si avvertì soprattutto dopo il 1830 e rimase, comunque, legato alle correnti illuministiche e non al Romanticismo.

Queste idee cominciarono a circolare nelle università siciliane, ma stentarono a tradursi in una spinta rivoluzionaria generalizzata, perchè mancavano leaders in grado di tradurle in concreta azione politica. Le spinte rivoluzionarie trovarono un punto di incontro per un’azione vasta e generalizzata nel 1848.